9.3.08

THE IRISH HUNTING (su richiesta!)

Il ragazzo era nudo con una coda di volpe che scendeva tra le sue natiche, fissata su una specie di cinturino di cuoio consumato. Conosceva bene il terreno, vi era cresciuto. Era il suo terreno di caccia, ma quel giorno era lui la preda. Per la prima volta era lui quello che doveva correre a perdifiato per non essere preso. L’aveva deciso suo padre, come era nella tradizione di famiglia. Un bravo cacciatore doveva provare cosa voleva dire essere la preda. Corse a brevi tratti per poi fermarsi ad ascoltare se arrivavano. Con le narici gonfie annusava l’aria. Fiutava la brezza. Corse un altro pezzo, lì sul limite del bosco, decise di andare a nascondersi nella vecchia casa di pietra non lontana. Attraversò di corsa il terreno aperto quando vide spuntare dal bosco la ragazza bionda sul cavallo nero, altissimo. Andava al passo il cavallo. La ragazza scrutò il terreno, poi si fermò, alzandosi sulle le staffe e osservò l’orizzonte. Poi lo vide. Diede di sperone all’animale che iniziò a galoppare verso di lui. Non sentì più il freddo e i piedi dolenti e dovette sbrigarsi ad accucciarsi dietro un cespuglio. L’intestino gli fece capire prima ancora del suo cervello che quel giorno avrebbe perso la sfida. Non era mai successo prima. Da quando l’aveva vista per la prima volta, due giorni prima, l’aveva intuito. L’atteggiamento arrogante non gli era servito a nulla, dal momento che durante l’unica volta che si erano incrociati i loro sguardi, lo scambio di messaggi era stato inequivocabile. Non erano servite le parole. Lei, non sapeva ancora nulla della caccia, ma gli aveva fatto capire che lui le piaceva e che l’avrebbe preso – in una maniera o l’altra se lo sarebbe preso e lui, preso da un misto di rabbia e eccitazione, aveva rilanciato con un “fottiti” - più spavaldo che convinto.
Attese lì, davanti alla casetta.

Nel ottobre del 1989 io avevo 21 anni. Da lì a due mesi mi sarei sposata con un uomo di 14 anni e di tanta esperienza più grande di me. L’avevo scelto proprio per il fatto che mi avrebbe dovuto insegnare la sopravvivenza. Ero perfettamente consapevole del fatto di non sapere nulla sulla convivenza con il genere umano. Per stare al mondo bisogna inserirsi nel contesto prima o poi. Avevo deciso di smettere i panni della ragazza-assassina che rompe ad ogni costo ogni cosa. Volevo diventare una donna normale. Il mio compagno allora mi invitò ad una caccia molto speciale, per insegnarmi la prima cosa fondamentale: non si può scegliere di essere questo o quello. Io ero e sono una cacciatrice.

La contea di Tipperary è famosa per i suoi allevamenti di cavalli “Irish Hunter”, il cavallo da caccia per eccellenza. Vicino alla cittadina di Cahir si trova uno di questi allevamenti di cui non farò il nome (per evitare che vengano invasi da visitatori in cerca di emozioni speciali). Ci eravamo andati a comprare 3 cavalli per il concorso di completo per conto terzi. Mio compagno ed io come fiduciari degli acquirenti e un veterinario, un ragazzo giovane e molto a modo, che avrebbe dovuto la buona salute degli animali che andavamo a comprare.

Arrivammo il giovedì pomeriggio, ci fecero vedere le nostre stanze e poi scendemmo per un tè con il padrone e la padrona della tenuta. La casa era di quelle vecchie case dei nobili irlandesi. Bellissima. La biblioteca, dove prendemmo il tè, conteneva più di dieci mila volumi, ci disse con orgoglio la moglie del padrone. Erano due persone non più giovanissime che avevano un’innata eleganza nei movimenti e nel parlare. Chiacchierando di vita e cavalli ad un certo punto ci dissero che il sabato mattina ci sarebbe stata una caccia organizzata dal loro figlio per altri compratori e ospiti stranieri e che eravamo invitati anche noi. Io ne fui immediatamente incuriosita e chiesi di che tipo di caccia si trattava. Pensai già alla muta dei cani, la volpe, i cavalli che galoppano sui prati e nei boschi che avevo intravisto al nostro arrivo. Lui mi sorrise e poi disse: “Well, noi qui pratichiamo ancora la caccia come facevano i nostri antenati. Una volta all’anno diamo la caccia alle bestie vive. Ora, mia moglie ed io non abbiamo più l’età per questo sport. Se ne occupa nostro figlio Harry. Se acconsentite di partecipare, domani sera vi daremo tutte le indicazioni.” Accettammo tutti e tre senza esitare. Sì, persino Michele, il nostro veterinario, anche se non era un cavaliere di grande esperienza, ne sembrava incuriosito.

Il venerdì passò con la compravendita dei tre cavalli. Scegliemmo tre animali splendidi. Passando per la scuderia notai in un box più grande degli altri un cavallo. Un castrone nero e – gigantesco. Avrà avuto almeno 1.80 al garrese. Mi avvicinai alle sbarre del suo box per osservarlo da vicino. L’animale tirò immediatamente le orecchie indietro e mi si scaraventò contro. Morse le sbarre con denti enormi e il bianco dei suoi occhi faceva capire che era il classico “cavallo pazzo”. Mi spaventai, perché avvertì nettamente la sua voglia di uccidermi. Mai avevo visto un cavallo più fiero e imponente. Chiesi allo stalliere se eventualmente avrei potuto montarlo all’indomani nell’occasione della caccia. Il ragazzo mi guardò un po’ perplesso. Era piccolino con i capelli rossi, le orecchie a sventola e le gambe storte di chi viene messo in sella ancor prima di camminare. Mi sorrise e disse: “Miss, questo cavallo non lo monta più nessuno, lo usiamo per la carrozza, è troppo cattivo per la sella. Ha morso e ferito gravemente un cliente e il padrone non vuole rischiare.” Io insistetti per farmelo provare. Alla fine il padrone acconsentì. Il cavallo, una volta fuori dalla sua gabbia (bisogna proprio dire cosi) in realtà non fece mosse aggressive, finche, già insellato, il ragazzo dai capelli rossi non tentò di mettergli il morso in bocca, con la catena pesante del barbozzale che gli sbatteva contro il muso morbido. Ecco la ribellione dell’animale contro ogni tentativo di dominarlo. Osservai la scena per qualche minuto e poi dissi, “per favore, lasciatelo in pace. Proviamo a mettergli un filetto dolce”. “Impossibile, Miss, non riuscirebbe tenerlo là fuori”. “Questo lo vedremo, Vi prego, lasciatemi provare.”
Il cavallo si chiamò Tony e nella scaletta delle taglie a lui si sarebbe dovuto mettere l’etichetta XXL. Gli accarezzai il collo, cosa che lui mal tollerava – e va bene, pensai, anche a me da fastidio quando mi toccano. Lo portai fuori nel cortile e senza perdere altro tempo salì. Lui era altissimo, ma io avevo le gambe lunghe. Non fecero in tempo ad aiutarmi e neanche il vecchio Tony ebbe il tempo di studiare un piano per liberarsi di me magari ancora prima che io potessi salirgli in groppa. Mi venne da ridere a vedere le facce perplesse e un po’ preoccupate. Lasciai le redini lunghe, strinsi le cosce con energia e feci schioccare la lingua. Tony avanzò, passi lunghi e decisi. Era una specie di carro armato che non si sarebbe fermato davanti a nessun ostacolo. Ottima cosa per una caccia alla volpe, dove bisogna saltare muri di pietra. Fu meraviglioso. Non avendo più il morso feroce in bocca, non aveva motivo di lamentarsi e, miracolo dei miracoli, il grande e cattivo Tony divenne una specie di divano comodo e ubbidiente. Da dietro dovevamo offrire un panorama spettacolare. Due culi tondi che ondeggiavano in perfetta sincronia.
Quando tornai dopo mezz’ora mi aspettarono già. “Andrà benissimo per domani”, dissi, saltando giù. Lo stalliere che si chiamava Patrick mi sorrise con ammirazione. “Nessuno qui di noi avrebbe avuto il suo coraggio, Miss”. Gli sorrisi anche io e strizzandogli un occhio gli risposi che “alle volte le catene non servono, basta trovare un accordo che soddisfa entrambe le parti”. Lui mi guardò un po’ pensieroso, poi mi sorrise e fischiando se ne tornò al lavoro.

Alla sera, quando ci eravamo riuniti in sala da pranzo, incontrammo gli altri ospiti che avrebbero dovuto partecipare alla caccia. Si trattò di due coppie di tedeschi che ovviamente furono “fe-li-cis-si-mi di incontrare una cosi deliziosa e giovane connazionale”. Mi dettero immediatamente sui nervi e lì trattai con gelida cortesia. Niente amiconi per la vita, chiaro, gente? Questo fu il messaggio che lanciarono i miei occhi e che venne cosi recepito. Poi ci furono i due proprietari della tenuta e il loro figlio Harry, un ragazzo non troppo alto, ma molto bello, con fisico asciutto e ben allenato. Il suo bel viso mostrava l’arroganza tipicamente giovanile e il fastidio di uno che avrebbe voluto essere da un’altra parte. Lo osservai con interesse. Il mio compagno se ne accorse e mi sorrise con la malizia di uno che ti conosce bene e al quale non puoi nascondere i tuoi desideri più nascosti. La conversazione a tavola girò ovviamente intorno alla caccia. Ci dissero a che ora saremmo partiti e di vestirci con indumenti comodi e caldi, perché saremmo stati in sella quasi tutto il giorno. Ci chiesero inoltre di portarci dietro della corda, un coltello e una fiaschetta di whiskey, tutte cose, che, se noi ne fossimo stati sprovvisti, ci avrebbero volentieri forniti loro. Restai stupita e domandai a che cosa serviva la corda. “Lo vedrà domani, Miss,” disse il padrone di casa e mi sorrise in maniera un po’ inquietante. La serata finì con un bicchiere della staffa bevuto in biblioteca e alle 11 neanche salimmo alle nostre stanze. Ero stanca dal viaggio, ma allo stesso tempo non riuscivo a trovare pace. Praticamente costrinsi il mio compagno a fare l’amore con me, lui già stava dormendo e non era proprio contento di essere svegliato di nuovo. Alla fine però cedette e fece il suo dovere. Ma essendo arrabbiato per la perdita del sonno, non mi riservò le sue buone maniere, anzi. Il nostro rapporto era cosi comunque. Affermavamo la nostra voglia cosi. Ogni volta bisognava stabilire chi comandava – chi stava sopra. Quella notte fui io. Pazienza, pensai, domani avrò qualche livido e segni di morsi. Noi due ci indentavamo attraverso una fisicità assoluta e simile quasi alla rissa. Ogni volta era un nuovo lottare per il potere, una nuova definizione dei ruoli. Non c’era tanta manifestazione d’affetto, perché allora non l’avrei retto. Quella notte fu comunque più uno scaricare di nervosismo, perché entrambi intuivamo che all’indomani non avremmo partecipato ad un evento normale. Evitammo di parlarne per conservare l’effetto della sorpresa. In questo eravamo simili.

La mattina dopo mi svegliai presto. Fuori si sentivano già i rumori di scuderia. I cani abbaiarono e una voce maschile chiamò all’ordine uno di loro. Il letto accanto a me era vuoto. Lui se n’era andato già. Non mi mise di buon umore il fatto di arrivare per ultima all’appuntamento. Mi lavai e vestì di fretta. Stivali da polo, neri e lunghi fin sotto il ginocchio, allacciati sul d’avanti. Pantaloni neri con lo sbuffo, per stare comoda, maglione e giacca di tweed sul verde. Niente trucco. Cosi con i capelli cortissimi sembravo davvero un’amazzone pronta alla guerra. Bene!
Fuori faceva freddo. Il respiro faceva le nuvolette davanti alle bocche di uomini e animali. Avevo i nervi tesi. Erano già tutti lì che mi guardavano arrivare. Ecco, ho un ricordo molto nitido di quel momento. Fin qui facevo fatica a ricordare, ma ora la memoria comincia a scorrere veloce. Sembrava che si aspettassero qualcosa da me. Sembrava che io fossi la protagonista di qualcosa che ancora non capivo. Andai a prendere Tony nel suo box. Patrick, il groom non c’era. Strano. Ma mi arrangiai da sola. Tony sembrava ricordarsi di me e del fatto che l’avevo liberato dal morso. Si lasciò insellare senza fare le bizze. Quando uscì dalla stalla gli altri erano già tutti in sella. Mi unì a loro. La muta dei cani partì in quel momento. Per stanare la volpe, pensai. Per fiutare la traccia.
Il padrone si avvicinò a me. “Buon giorno, cara, sei pronta? Ora ti spiego, come intendiamo la caccia qui. Mio figlio Harry, Patrick e il vostro veterinario, che si è offerto volontario, sono partiti un’ora fa. Lasceranno delle tracce. Piccole fettucce di stoffa. Sono loro le prede che dovete prendere. Sorrise malizioso. Se ci riuscirete, sta sera ci faranno da servi alla cena, saranno a nostra totale disposizione. Se invece, non li prenderete entro le 3 di oggi pomeriggio, siederanno a tavola con noi altri. Ora tireremo a sorte per stabilire chi di noi qui presenti dovrà eventualmente prendere il loro posto come servi. Ti è tutto chiaro? Hai delle domande, cara?”
Restai senza parola, senza respiro. Guardai il mio compagno che mi osservò con un sorriso che stava a metà tra “hai visto, che bel regalo ti ho fatto” e …la sfida. Non sapevo cosa dire. Le parole del padrone mi erano entrate immediatamente nelle viscere, in testa, tra le cosce. La bocca era secca, quando chiesi con calma (del tutto finta e apparente) “ Sorry, Sir, ma cosa intende per ‘prenderli’? Ci sono regole, limiti?” Lui mi guardò, soddisfatto evidentemente della mia reazione. “Portateli a casa vivi, per il resto…. nessuna regola, nessun limite. L’unica cosa irrinunciabile è che la preda va portata a casa legata e la coda di volpe va tagliata.” – “Bene, cosa aspettiamo allora”, dissi con tutta la spavalderia dei miei 21 anni. “Tiriamo a sorte”, “Ladies first”, mi rispose “chi prende i bastoncini più corti, perde” e mi offrì di scegliere da un sacchetto scamosciato – apparentemente usato per contenere tabacco da pipa (strano come anche di quel particolare mi ricordi esattamente). Ne presi uno. Era cortissimo. Infatti, io, una delle signore tedesche e il marito dell’altra ci beccammo la parte ingrata degli eventuali servi sostitutivi.

A questo punto non avevo alternative. Dovevo tornare con una preda. Io non faccio la serva a nessuno! La caccia iniziò cosi.

Eravamo sei persone e decidemmo che era più probabile stanare le prede se ci fossimo divisi. E poi era una cosa dove ognuno si batteva da solo, perché alla fine nessuno avrebbe voluto fare la parte del servo. Guardai il mio compagno che, augurandomi buona fortuna mi diede un bacio, da sella a sella, poi disse “sei bellissima, vedi di non uccidere nessuno.” Poi diede le gambe al suo cavallo e si allontanò rapidamente. Anche gli altri partirono al galoppo, mentre io proseguivo con calma. Era improbabile che le prede si sarebbero lasciate prendere facilmente, salvo forse il nostro amico veterinario, che non aveva confidenza con il terreno. Capivo che avrei avuto bisogno di un piano, una strategia. Non sarebbe bastato seguire l’abbaiare dei cani. Intanto decisi (forse non solo in quel momento) che avrei puntato i miei sforzi su Harry, il figlio dei proprietari. Michele, il veterinario, mi faceva tenerezza, era un po’ imbranato, anche se la cosa sembrava entusiasmarlo, cosa che non mi sarei mai aspettata. Patrick, lo stalliere, era comunque già un servo. Che piacere sarebbe mai stato catturarlo e tutto il resto? A me, invece, piacevano da sempre quelli spavaldi, quelli che pensano di essere più forti di te. Quelli che ti sfidano. Ogni volta, quando giocavo con il mio compagno, coinvolgendo una terza persona, lui procurava persone che avevano questa caratteristica: una specie di spavalderia un po’ stronza, che poi a distruggerla, a me dava una soddisfazione immensa. L’aspetto fisico era più importante di quello mentale. Non mi piaceva umiliare le prede. Una volta accettata la loro resa, perdevo l’interesse di continuare, mentre il mio compagno era quello che poi gli faceva rivivere la loro sconfitta, fino a farli piangere lacrime vere. La sottomissione per noi comunque non valeva nulla, se non ci dovevamo impegnare. E cosi è rimasto per me fino ad oggi.
Quindi decisi la mia tattica. Avrei catturato il servo. Lo avrei convinto ad allearsi con me per stanare il figlio del padrone. Per come l’avevo inquadrato, Patrick avrebbe goduto non poco a passare una serata a tavola con i padroni, con Harry al suo servizio.
Iniziai a scrutare il terreno in cerca delle pezze di stoffa. Anche le prede si erano separate. Optai per la traccia che indicò verso il bosco che si vedeva alla mia destra, in lontananza. Il cavallo sembrava contento di poter allungare il passo. Me lo sentivo fiduciosamente in mano. La lealtà di un animale o una persona che salviamo da qualcosa diventa incondizionata. Tony, il bestione cattivo, si fidava di me.
Era bellissimo correre sul terreno morbido insieme a quell’animale magnifico. Non ricordo molto bene, ma probabilmente il primo orgasmo della giornata mi venne in quel momento.
Arrivato sul limite del bosco rallentai. Decisi di annunciarmi, di non cercare neanche per un momento di mimetizzarmi. Tanto, gli altri due erano cresciuti lì, era il loro terreno. Iniziai a fischiare allegramente, camminando tra gli alberi e cespugli. Ad un certo punto in lontananza si sentirono delle voci abbaiare di cani. Qualcuno implorava – in italiano. Bene, pensai con un sorriso, hanno preso Michelino. Me lo immaginai nudo e legato disteso per terra e i quattro tedeschi che si divertivano con lui. Mi eccitai molto. La mia fica che sfregava sulla sella, le voci lontane, gli odori del bosco, tutto questo mi dava un immenso piacere.
Decisi che era ora di accelerare i tempi e iniziai a chiamare Patrick ad alta voce.”Vieni fuori, Patrick, vieni. Non ti faccio niente. Non sei tu, quello che voglio. Io voglio quell’altro e mi serve il tuo aiuto.” Per un po’ non sentì nulla. Continuai a chiamare. Dopo un po’, la voce mi stava già cedendo, senti un fruscio alla mia sinistra. Intravidi tra dei cespugli dei capelli rossi e dietro quelli un albero grosso, una quercia o qualcosa di simile. Mi avvicinai lentamente fischiando. Davanti ai cespugli dissi, “Dai, ragazzo vieni fuori, lo so che sei lì. Non ti voglio fregare, ma tu devi decidere ora, o ti allei con me e prendiamo Harry, il fighetto, oppure prendo te come preda.” Per due lunghi istanti non si sentì nulla, poi, da dietro uno dei cespugli venne fuori Patrick, il ragazzo dai capelli rossi, nudo e tutto graffiato. Aveva lentiggini su tutto il corpo e anche il pelo dal quale spuntava il suo sesso era rossiccio ed ispido. Non cercò di coprirsi o di proteggersi in nessuna maniera. Mi guardò senza alcuna sfida e disse, “Miss, ho visto come ha fatto con il cavallo ieri. Neanche a me piace il morso, ma la padrona me lo mette sempre.” “Non oggi, ragazzo,” dissi con calma. Poi scesi dal cavallo e mi tolsi la giacca. Gliela passai insieme alla fiaschetta di whiskey che avevo ricevuto prima di partire. “Toh, scaldati e poi sali dietro me”, dissi. Ma lui scosse la testa “No, Miss, Tony non lo permetterebbe e poi non starebbe bene. “Va bene, allora fammi strada. Andiamo a prendere il tuo giovane padrone.”
“L’ho visto andare di là. Mi ha ordinato di restare dietro di lui, cosi Lei avrebbe visto prima me di lui. Io so dove è diretto.”
Patrick si mise a correre e io lo seguì. Arrivati dall’altra parte del bosco mi indicò una casetta di pietra non tanto lontana con dei cespugli ed alberelli intorno. “Miss, ora deve proseguire da sola. Se vede che l’ho aiutata a scovarlo mi fa passare un guaio dopo”.
“Non ti preoccupare e grazie – vedrai, che sta sera ci divertiremo.”
“Stia attenta, Miss, non ama perdere al gioco.”
“Grazie dell’avvertimento, ma ora và. Torna a casa e riscaldati.”

Lasciai Patrick alle spalle e senza voltarmi proseguì verso la casa. Quando arrivai a metà strada, mi fermai e cercai di vedere in lontananza. Vidi il ragazzo che evidentemente non si aspettava me lì – e cosi presto.
Non volevo dargli tempo per studiare un piano di difesa. Diedi le gambe al cavallo che partì al galoppo.

Il cavallo gigante con la bionda gigante in sella che sta piombando addosso a quel poveretto inerme…ecco cosa ricordo…..
Harry si china in avanti e raccoglie qualcosa da terra. Troppo tardi mi accorgo che è una pietra. Non grande per la verità, ma lui la lancia contro la testa del cavallo non contro di me. E il cavallo ovviamente si spaventa e scarta. Io perdo l’equilibrio e l’aderenza alla sella. Volo via insieme alla sella e atterro pesantemente. Tony, ormai imbizzarrito, scappa con la coda alta. Penso che inciamperà nei redini penzoloni. Ho perso il cap, uno sperone e il frustino. Sul mento mi sento sgocciolare il sangue. Mi sono morsicata la lingua e il labbro inferiore. E ho preso una brutta botta al fondoschiena. Un po’ frastornata mi rialzo e cerco di focalizzare la situazione. Harry è lì, davanti a me, con il frustino in una mano e lo sperone nell’altra.
“Pensavi di beccarmi, puttana, invece non ce la fai.”
Lo guardo. E poi gelida gli dico, “hai lanciato una sasso al mio cavallo. Non è carino. E poi bada a come parli”
Lui impallidisce. Non capisco se per rabbia o per paura. Forse per tutti e due.
“Harry, caro, possiamo giocarcela in due modi. O vieni volontariamente, tanto lo dovrai fare alla fine, oppure ti vengo a prendere e allora non solo ti faccio sanguinare anche te ma ti faccio pure molto male.”
Tolgo un guanto e con il dorso della mano mi pulisco il mento. Poi senza perderlo di vista mi lecco via il sangue. Con calma poi tiro fuori il mio coltello. Un coltellaccio, che mi è stato regalato dal mio compagno e dal quale non mi separo mai, neanche quando vado all’opera, tanto per essere chiara.
Lo apro. La lama è corta e robusta. Poi prendo la corda dalla borsa laterale della sella. La lascio lunga e comincio con calma a misurarla.
“Vediamo, Harry, caro, quanti pezzi di corda credi che mi servono per legare un fighetto spavaldo come te. Io direi tre. Due corti per mani e piedi e uno un pochino più lungo, per farti provare un po’ di dolore anche a te. Che ne dici, hm? Hai fatto male a Tony. Hai fatto sanguinare me. E’ solo giusto che ora ti prendi la tua parte”.
Lui mi guarda come ipnotizzato. Da quando mi sono leccata il mio sangue e ho tolto anche l’altro guanto e poi, quando ho tirato fuori il coltello, lui si è come incantato. In qualche maniera si riprende. Comincia ad insultarmi in gaelico, agitando il frustino. Poi lancia lo sperone che io sta volta schivo senza difficoltà. Mi avvicino con calma inesorabile. In quei momenti non sento paura o dolore. Sento soltanto una grande eccitazione. Ormai sono tutta bagnata, di sudore, di sangue e tra le cosce.
Lui alza il frustino per colpirmi al volto. Mi colpisce alla spalla sinistra e il dolore mi fa arrabbiare. Al prossimo colpo riesco ad afferrare la punta del frustino e glielo strappo. Deve avere le mani sudate ormai, perché gli scivola via senza resistenza.
“Ma allora non sei solo uno stronzetto viziato”, dico, “sei anche un idiota”.
Lui fa per scappare, ma io scatto più velocemente. Lui è stanco. Ha corso nel bosco mentre io, salvo la brutta botta della caduta, ho conservato le forze.
Lo prendo ad un braccio che gli giro dietro la schiena, poi lo spingo fino a farlo cadere di pancia. Poi con il frustino comincio frustarlo. Colpi lenti e mirati. Schiena e natiche in poco tempo si riempiono di strisce rosee.
Lui urla di rabbia e cerca di rialzarsi.
“Resta giù, cretino, se non vuoi che tagli la tua pelle a fettine.” E colpisco. “ Resta giù, se non vuoi morire”. Colpisco ancora. Il sibilare del frustino, l’odore di paura che ormai emana dal ragazzo a terra, mi fanno venire il sangue alla testa. Lascio cadere il frustino e mi butto addosso a lui. Mi siedo a cavalcioni sulle sue cosce. Lui con le mani cerca di afferrarmi, di graffiarmi, di farmi qualunque cosa. Ma ormai ha perso, la sua difesa è inefficace, ha perso completamente la testa.
Io tiro fuori nuovamente il mio coltello e con un movimento rapido gli taglio la coda di volpe, poi lo prendo per i capelli e gli tiro indietro la testa: “Ora ascolta Harry, questo è un gioco e lo sappiamo benissimo entrambi. Quello che io non posso sapere sono gli accordi che hai con i tuoi, se godi di quel che sta succedendo adesso oppure se ti hanno costretto. Ti conviene comunque a questo punto arrenderti, perché tu devi sapere che io da ora in poi potrei anche dimenticare che stiamo solo giocando. Tu mi hai fatto sanguinare e ora anche io farò sanguinare te. Se stai fermo è un attimo e non c’è pericolo, ma se continui a fare resistenza non so cosa può succedere.
Lui si blocca, forse sta per svenire. Afferro con la sinistra il lembo del suo orecchio destro, spingendo con il gomito la sua testa nel terreno. Il taglio è veloce e piccolo. Il lembo dell’orecchio sanguina tantissimo. Lui fa dei versi come un maialino sgozzato e io approfitto del dolore momentaneo per legargli le mani dietro la schiena. Volevo anche legargli i piedi, ma ormai siamo senza cavallo. Ma le palle sì, penso, facendo poi passare la corda intorno al collo, da costringerlo a tenersi leggermente piegato in avanti una volta messo in piedi. Harry ormai è sbiancato. E’ stanco e tremante. Temo che possa svenire. E non voglio che si perde nemmeno un istante della sua vergognosa fine. Tiro fuori la fiaschetta di Whiskey e lo costringo a bere due-tre sorsi. Ne prendo uno anche io e poi lo tiro su in piedi.
“Forza, Harry, torniamo a casa. Vedrai che bella accoglienza che ci daranno”
“Hai avuto soltanto fortuna, brutta stronza”, mi dice con rabbia.
“Vedi caro, la fortuna non c’entra. Tu non hai mai realmente dovuto temere per la tua vita. Io sì. E poi tu disprezzi gli altri, persone ed animali. Io, invece, li rispetto. Con me tu potevi solo perdere. Non c’entra un cazzo la fortuna”
Ci avviamo lentamente verso il bosco, tutti e due zoppicando e sporchi di terra e fango. Quando usciamo dall’altra parte del bosco vedo Tony che con tutta calma sta brucando l’erba. Ci avviciniamo piano. Harry sta buono. Evidentemente l’idea di non dover più camminare a piedi gli va a genio. Riesco a prendere Tony e a salire. Dalla sella faccio cenno a Harry di avvicinarsi al collo dell’animale. “Dai, un bel salto, Harry.” “No, voglio salire dietro.” “O fai come dico, o vai a piedi, deciditi”. Ormai il poveretto non impreca neanche più. Si appoggia con le mani legate sul collo del cavallo, mentre io mi chino e lo prendo per la corda che ha intorno alla vita. Quando lui salta, io lo aiuto, tirandolo verso l’alto. Dalla sua bocca esce un gemito. Non capisco se si tratta di dolore puro o se è misto a qualcosa d’altro…
Ora ce l’ho col culo per aria d’avanti a me appoggiato per metà sul collo del cavallo e l’altra metà sul pomello della sella e addosso a me.
Ma non un lamento esce dalla sua bocca. Quando chino la testa per guardare se è ancora cosciente, vedo che ha gli occhi chiusi e la bocca semiaperta con un rivolo di saliva che ne fuoriesce. Sta ansimando di piacere. “Cazzo, Harry, controllati, non ti azzardare a venirmi sulle brache.” Ma è già troppo tardi. Mi sento inondare la gamba sinistra dal fiotto caldo del suo sperma. “Bastardo, ora vedi che ti faccio….”, ma poi mi viene da ridere. Non c’è motivo apparente. E vedo che anche lui sorride beato con gli angoli della bocca. “Sei una puttana.” A questo punto ridiamo entrambi. Il gioco per noi due è finito. Sì, perché non c’è niente di peggio della risata per far andare a puttane l’atmosfera giusta che ci vuole per giocare. O c’è la paura o c’è la risata. Entrambi non possono starci allo stesso tempo.

Siamo gli ultimi ad arrivare a casa. Ci aspettano già. Vedo le due coppie di tedeschi che stanno brindando coi padroni di casa lì in cortile con dello champagne. Vedo Michele e il mio compagno che gli sta medicando un graffio sul braccio. E poi vedo Patrick che sta evidentemente portando da mangiare ai cavalli. Sono tutti vestiti. Tutto sembra normale, come se non fosse successo nulla di strano. Quando sentono gli zoccoli del mio cavallo tutti gli occhi sono addosso a noi tre. Il cavallo nero, la ragazza bionda e il povero Harry buttato sulla sella con il culo nudo per aria e che da la sensazione di essere parecchio imbarazzato.

Fermo il cavallo e lascio scivolare Harry giù a terra. Tutti ci stanno intorno e ci guardano. L’eccitazione è palpabile. Si vede chiaramente la macchia sui miei pantaloni, l’orecchio sfregiato del ragazzo, la schiena e le natiche striate di rosso e il mio viso con il labbro spaccato e gonfio e lo sguardo infiammato e sazio che hanno le donne dopo un orgasmo vero. Faccio girare la gamba sopra la testa del cavallo e scendo alla maniera dei cowboy. “Asciugate entrambi e dategli da bere. Se lo meritano, “ dico a nessuno in particolare. Arriva Patrick di corsa con due coperte di lana grezza e ne butta addosso una al cavallo e una sulle spalle di Harry. Nel frattempo suo padre gli si avvicina e gli stringe la mano. Gli parla piano, non riesco a sentire, ma poi si abbracciano e io penso che questo gioco è stato bellissimo!!!

Poi bevo anche io un bicchiere, poi un altro di champagne. Ho sete e non sento l’effetto del alcol. Mio compagno si avvicina a me. Mi bacia sulla mia bocca dolente e gonfia e mi stringe a se. “Ti ho visto là fuori. Eri magnifica”. Resto senza parole. Ma come!!!!?! Era tutto concordato?! “Non ho seguito gli altri. Io volevo vedere te. E ne è valsa la pena.”

Poi andiamo nella nostra camera. Io sono stanca morta e mi addormento cosi come sono sul letto, con i piedi penzolanti a terra con indosso ancora gli stivali infangati.

Alla sera scendiamo a cena, io quasi contro voglia. Non sento fame. Ora sono pulita e profumata e indosso un bel vestito nero, lungo fino appena sopra il ginocchio, molto semplice, a maniche lunghe e con una profonda scollatura. Ho messo anche i tacchi. Mi sono fatta un bel trucco che risalta gli occhi e l’unica cosa che ricorda la giornata passata sono le mie labbra gonfie e spaccate. Ho avuto tutto da questa giornata e sono satura di impressioni, sensazioni forti ed emozioni che credevo di non poter provare.

Quando entriamo nella sala da pranzo, vediamo i padroni, Patrick (fiero ed elegantissimo in Smoking come tutti gli altri maschi vincitori) e il nostro Michelino seduti a tavola e i quattro crucchi per terra su quattro zampe e legati al guinzaglio – a strozzo, anche le donne. I loro culi flaccidi e le tette sgonfie delle donne mi fanno salire una risata in gola. Ma allora, non erano mica riusciti a prendere Michele che li ha fatti correre come degli idioti in giro per i boschi per tornare prima di loro a casa. Supremazia italiana.
Harry, invece, è vestito da valletto inglese e quando mi vede entrare mi strizza l’occhio. Ci sediamo a tavola, e quando il valletto mi da le spalle per prendere i nostri piatti, mi si blocca di nuovo il respiro: dietro è completamente nudo. Il vestito è tenuto su da degli elastici. Si vedono benissimo le tracce del mio lavoretto. Mangio senza che la presenza dei “cani” e delle “cagne” sotto il tavolo mi eccitino più di tanto. Ogni tanto sferro un calcio alla cieca. Non sopporto e mi si strusci contro le gambe sotto il tavolo. Non ora. Voglio solo tornare a letto. Il corpo mi fa male dappertutto. Chiedo scusa e salgo in camera. Il mio compagno resta, invece, per lui il gioco comincia ora. Quando sale in camera, ore dopo, ha addosso un odore acre non del tutto riconoscibile. Si spoglia e scivola sotto le coperte e senza dire una parola facciamo l’amore con me che neanche mi sveglio completamente.

Quanto ho amato questo uomo negli anni a seguire. Capiva la mia anima e mi lasciava libera di sperimentare qualunque cosa, sempre pronto a soccorrermi e salvarmi – a volte dagli altri, a volte da me stessa..

Sono quel che sono, non per mia scelta. Lo sono diventata a causa di quello che è stata la mia vita fino ad oggi. Sono una cacciatrice per necessità di sopravvivenza. Ogni tanto colgo l’occasione di cacciare la mia preda preferita: l’uomo. Non porto rancore al mio destino che mi ha fatto diventare così e neanche gli sono grata. Accetto il fatto di non stare in nessun quadro predefinito. Cerco di non pesare. Cerco di stare in equilibrio. E qualche volta libero il mio istinto primordiale di prevalere su qualcuno della mia stessa specie. Affermo la mia supremazia fisica e mentale. Affermo che ci sono. Che sono viva.

2 commenti:

Unknown ha detto...

Bello rileggerla qui, questa storia intrisa di te.

Milo ha detto...

Ciao Mod!
Sono contento che tu mi abbia segnalato questo post.
Il rispetto che tu nutri per animali e persone ti distingue dalla maggioranza delle persone dell'ambiente s/m.
Non credo ce ne sia molto, di rispetto. E non solo in quel giro.
E' una carenza globale, purtroppo.

Grazie, mi è piaciuta molto questa lettura!

Kisses